Batang Rajang: mission failed!

sibu,borneo malese

( Sarawak, Borneo Malese )

Lasciata Kuching mi dirigo verso Sibu, con la chiara intenzione di risalire il mitico Batang Rajang ( il Rio delle Amazzoni del Borneo, quello famoso per i sanguinari cacciatori di teste e per le imprese di grandi viaggiatori ) fino a Belaga e possibilmente oltre. Il bacino di questo imponente fiume ospita i più interessanti gruppi etnici del Sarawak, gli Iban nella prima parte e gli Orang Ulu ( termine generico che significa più o meno “gente della parte alta del fiume” e che comprende diversi gruppi: Kenyah, Kayan, Klemantan, Kelabit, Lun Bawang e Penan  ) nella seconda. In realtà malgrado la storia ricca di fascino che potrebbe far pensare a viaggi in qualche modo avventurosi questa zona per vari motivi è cambiata radicalmente negli ultimi decenni, e le culture tribali tradizionali sono in larga parte scomparse, così come le longhouses originali ormai quasi tutte sostituite da edifici moderni, una specie di “condomini” che si sviluppano in orizzontale invece che in verticale. Quelle poche rimaste vengono mantenute principalmente per i turisti, che quando vengono nel Borneo esigono delle foto di una longhouse con tipi tatuati, non importa se è una specie di teatrino creato ad arte. Qualche “backpacker” magari vi dirà che non è vero, che lui è stato nella vera longhouse ( seguendo una mappa che un tizio gli ha dato a Khao San road… ), dove la gente vive ancora come nell’800 e che vede dei bianchi raramente. E magari vi dirà che vivono ancora cacciando con le cerbottane. Non ci credo, sicuramente nel grande bacino del Rajang ci sono ancora dei villaggi in zone remote dove vivono una vita più semplice, simile a quella dei contadini del Laos o della Cambogia, ma i tempi degli headhunters sono finiti da un pezzo. Perfino i nomadi Penan ormai si sono quasi tutti stabiliti ( o meglio sono stati costretti a farlo visto che le loro foreste ormai non esistono più, trasformate in tristi piantagioni di palme da olio ) in moderni villaggi. Non escludo invece che in altre zone del Borneo ( anche indonesiano ) dove non ci sono strade o fiumi navigabili ci siano ancora piccole comunità che vivono una vita vagamente tribale, ma sono zone accessibili solo a chi ha moltissimi soldi da spendere tra guide e mezzi di trasporto.

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Non sono quindi partito con grandi aspettative, ma abbastanza fiducioso nelle mie collaudate capacità di trovare posti interessanti fuori dalle rotte battute. Il primo obiettivo era raggiungere Kapit e iniziare a chiedere informazioni, trovare qualche mappa decente e una volta esplorata la zona proseguire verso la piccola città-mercato di Belaga.

Sibu è una città prevalentemente commerciale senza grandi attrattive, abitata quasi esclusivamente da cinesi. Ma stranamente mi ci sono trovato bene e ho deciso di fermarmi per un paio di giorni, gli abitanti mi sono sembrati tra i più simpatici e amichevoli tra quelli incontrati nel Sarawak, e direi senza dubbio i migliori tra quelli delle città. Questa città ha la fama di essere una “gangster town”, ma a me non è sembrata particolarmente pericolosa, anche se non ho girato di notte. E’ anche famosa per essere molto ricca, a quanto pare ci sono moltissimi milionari, e questo invece non mi stupisce, dove ci sono molti cinesi in genere ci sono anche molti soldi. Nei dintorni di Sibu ci sono un paio di cose interessanti, una di queste è  un gruppo di longhouses Iban, alcune moderne e altre quasi centenarie. Non dovrebbe nemmeno essere difficile da raggiungere, ma non so perché decido che non ne vale la pena, “troppo vicino alla città”, penso. Si rivelerà un errore, il primo di questa sfortunata “spedizione” lungo il Batang Rajang. Tra l’altro nei due giorni passati a Sibu non ho incontrato nessun altro straniero, quindi se non altro il posto non era certo turistico.

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Il viaggio verso Kapit è tutt’altro che piacevole: queste barche, che sembrano degli aerei senza ali, sono veloci ma non consentono di godersi il bel paesaggio lungo il fiume e di osservare la vita delle ( moderne ) longhouses. Inoltre in cabina c’è la solita aria condizionata fastidiosissima regolata a temperature siberiane tanto amata in Malesia. Ho preferito di gran lunga i lentissimi e scomodi ferry birmani.

Appena scendo dalla barca decido quasi subito che Kapit non mi piace, c’è un’atmosfera che non mi convince, e questa prima impressione sicuramente condizionerà molto la mia permanenza in città. Nessuno mi sembra particolarmente amichevole né sembra volermi aiutare nella mia ricerca. Gli unici sono i tassisti, che però mi chiedono cifre esagerate per portarmi nella longhouse più turistica dove non voglio andare e che si trova poco fuori città, a solo dieci chilometri. Se proprio non c’è altro potrei volendo andarci anche a piedi, ma nessuno vuole nemmeno dirmi come ci si arriva, e in ogni caso ci sarebbe da pagare un assurdo “biglietto” di quasi 15 euro che onestamente mi sembra una follia. Una similguida, mezzo ubriaco, vantandosi di essere “sulla Lonely Planet” ( che io comunque non ho ), mi spara 100 euro secchi secchi per andare in un’altra longhouse distante una quarantina di chilometri. Ho la netta sensazione che siano tutte delle mezze fregature, ma la cosa più strana è che nessuno di questi tizi vuole imbastire nemmeno una minima contrattazione, ti dicono il prezzo e quando rispondi come da copione: “nooooo, it’s toooo much!”, se ne vanno senza rispondere. Mah! Qualcuno gli dica che sono asiatici!! Sono abbastanza certo che i minivan pubblici raggiungono alcune di queste longhouses, ma anche questi sono gestiti dai tassisti, che ovviamente non hanno nessuna intenzione di aiutarti. Ho una sensazione di deja vu, questa situazione mi ricorda molto qualcosa di simile vissuto in India con gli autisti dei tuc-tuc, con i quali ho diverse esperienze di discussioni e litigi. Volendo ci sono dei posti raggiungibili via barca, ma ovviamente è una soluzione ancora più complicata e costosa, di solito organizzata da agenzie di città e dai grandi hotel. Questa città mi piace sempre di meno, decido di partire l’indomani con la prima barca per Belaga. Questa dovrebbe essere la parte più affascinante del viaggio, il fiume si restringe, si attraversano le famose Pelagus rapids, la foresta diventa più fitta e ci sono diversi villaggi lungo le rive. E si può viaggiare sul tetto!

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Per andare a oltre Kapit serve un ridicolo permesso da richiedere al “Resident’s Office”, che ovviamente non si trova in città ma a 3 km al nono piano di un inutile palazzone costruito quasi sicuramente per sprecare un po’ di soldi pubblici, questa evidentemente non è una specialità soltanto italiana. Ci vado a piedi, non ho la minima intenzione di dare nemmeno pochi ringgit a questi stronzi di tassisti, e ovviamente a metà strada inizia a piovere fortissimo, questo viaggio nel Rejang sembra proprio essere nato sotto una cattiva stella. Ma il peggio deve ancora arrivare. Ritirato il permesso esco dal palazzone e inizio a camminare verso Kapit, ma dopo poche decine di metri un tizio in macchina accosta e mi chiede se voglio un passaggio. “Ma allora c’è qualche persona gentile in questa cazzo di città”, penso. E’ un impiegato che lavora nel palazzone e parlando del più e del meno scopro che è proprio di Belaga, dove sono diretto e dove spero di trovare ciò che cerco. “Great! I’m going there tomorrow, maybe you can help me to organize a good trip there”. Sarebbe anche disposto ad aiutarmi ma mi dice subito che non posso andare a Belaga l’indomani, nè nei giorni seguenti, la nuova diga di Bakun ( quella fortemente contestata per il disastro ecologico che ha causato e ora da alcuni considerata non sicura ) trattiene l’acqua e il livello del fiume è troppo basso per consentire la navigazione. L’unica possibilità sarebbe tornare a Sibu, quindi andare a Bintulu e prendere un 4WD, ma con queste piogge la strada ( che non è una strada statale ma è un sterrata di proprietà delle compagnie che trasportano il legname ) potrebbe essere quasi impraticabile e in ogni caso il viaggio potrebbe essere piuttosto costoso. Mentre penso cosa posso fare arriviamo in centro a Kapit e il tipo mi molla davanti all’albergo. Lo ringrazio ma quando sto per scendere cambia espressione e mi dice in tono secco:”3 ringgit!”. Evidentemente non era una delle persone gentili di Kapit, che sicuramente ci sono, ma che io non ho avuto la fortuna di incontrare.

A questo punto dichiaro la missione ufficialmente fallita, tornerò a Sibu e quindi andrò nel semisconosciuto parco di Similajau vicino a Bintulu a godermi un pò di spiaggia e solitudine. Non ho trovato ancora il Borneo che cercavo, ma mi rimane un asso nella manica, le Kelabit Highlands, che cercherò di giocarmi nel migliore dei modi. In serata mi bevo un paio di birre ( che stranamente costano molto meno che nel resto del Sarawak, e le commesse del supermercato cinese sono simpaticissime ) e vado a fare una visita al tatuatore locale, che è un vero Iban ed è pure molto simpatico, ha dei bei disegni tribali e potrebbe anche tatuare con il metodo tradizionale ( hand-tapping ). Ma mi chiede davvero troppo, quasi il triplo di quanto mi avevano chiesto a Kuching. Lascio perdere, forse ad inizio viaggio con più soldi e più entusiasmo avrei potuto anche farlo, ma a questo punto preferisco spendere ciò che mi rimane nella giungla o in qualche spiaggia della Thailandia.

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info utili:

barca Kuching-Sibu  4/5 ore 45 ringgit ( per arrivare al jetty autobus numero 1 dal centro città, 2 r ma c’è da camminare per circa un chilometro altrimenti il taxi costa 20r )

Hoover lodging house a Sibu: classica bettola con ventilatore per 20 r. Karaoke bar rumorosissimo di fronte aperto fino alle 3.

barca Sibu-Kapit 2/3 ore 20 ringgit

Dragon Inn a Kapit: altra bettola con ventilatore per 30 r

 

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